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ESSERE O NON ESSERE
(TO BE OR NOT T0 BE)
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  Stampa questa scheda Data della recensione: 22 marzo 1984
 
di Alan Johnson, con Mel Brooks, Anne Bancroft, Christopher Lloyd (Stati Uniti, 1983)
 
Paragonare un "remake" all'originale al quale s'ispira è talvolta un'operazione gratuita. Un po' come quando si dice, parlando di un film tratto da un'opera letteraria, che "il libro era meglio". Ma l'occasione e troppo ghiotta: perché, contemporaneamente al recente e candidato all'Oscar Essere o non essere con il comico americano Mel Brooks, chi non avesse mai gustato il capolavoro di Ernst Lubitsch potrà precipitarsi al Corso di Lugano o al Forum di Bellinzona.

Cosa giustifica questo tipo di rifacimento (operazione onerosa, come qualsiasi intrapresa oggi nel cinema, e non per questo rara: esce in questi giorni Scarface, "remake" di Brian de Palma del celebre poliziesco di Howard Hawks): ecco un tema che necessiterebbe di uno spazio ben maggiore di questa rubrica. Diciamo che occorrerebbero nuove ragioni per scomodare l'esempio celebre: una nuova situazione spettacolare, o culturale, o sociale. Soprattutto, una nuova situazione storica.

È il caso per To be or not to be? Non ci sembra, anche se Mel Brooks sostiene che un film celebre è come un pezzo teatrale. Un segno culturale e artistico ormai entrato nella storia, che può essere ripetuto e reinterpretato esattamente alla stessa stregua di un testo teatrale. Il tema del celebre film di Lubitsch è notissimo: l'invasione nazista a Varsavia. 0, meglio, lo scontro fra una compagnia di teatro polacca di quei tempi e la gerarchia nazista. Come distruggere un modo di far teatro, quello nazista, dal passo dell'oca all'orrore supremo del campo di sterminio, con il teatro di sempre, quello di Shakespeare o della semplice farsa.

Un tema, quello del film originale, precisamente datato. Poiché, se è vero che d'invasioni, di sopraffazioni e di violenze ne esistono sempre, è anche vero che quel piccolo gioiello ad incastro che è la sceneggiatura del film di Lubitsch si riferisce esattamente ad un aneddoto, ad una tipologia storica. Tanto che quasi tutti i doppi sensi che costituiscono l'arma del film per disarmare il nemico sono basati sul travestimento: primo fra tutti, noblesse oblige, quello di Hitler, che permetterà ai nostri eroi di fuggire verso la salvezza.

Le conseguenze sono prevedibili. Il primo Essere O non essere è (come vuol essere anche il secondo) uno studio sulla meccanica della risata. Sul passaggio dalla realtà più aberrante, quella della violenza nazista, alla dimensione ilarante, e quindi assurda e liberatoria del ridicolo. Ma il film di Lubitsch viveva quella realtà con la sofferenza e la passione che ispira un fatto contemporaneo. Mentre in quello di Brooks la medesima realtà è ornai diventata semplice iconografia: un bersaglio accademico e risaputo per delle frecciate di quarant'anni dopo. Il resto, ovviamente, succede al momento essenziale della scrittura. Quella di Lubitsch (che non per niente si è finita per designare col termine di Lubitsch Touch) è rimasta un modello irripetibile di graffiante leggerezza, un esempio clamoroso di perfezione nell'uso degli attributi tradizionali della commedia brillante che trasforma la comicità in analisi ed in critica feroce.

Il tocco di Mel Brooks è piuttosto una mazzata. Anche se qui si esprime su livelli dignitosi (da notare che il comico appare qui come attore e produttore, mentre la regia è quella anonima di un suo ex scenografo, Alan Johnson) siamo proprio agli antipodi della concisione di Lubitsch: la comicità di Brooks nasce dalla ripetizione degli effetti, dall'esasperazione delle conseguenze, dalla grossolanità non sempre volontaria del tratto.

Ma il controsenso forse maggiore di tutta l'operazione sta nel fatto che si è voluto fare la satira di una satira. Col risultato di trasformare in farsa uno dei momenti nei quali il cinema aveva saputo trasformare il tragico nel ridicolo con le armi squisite della grazia e dell'intelligenza.


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